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In momenti in cui troppo spesso si evidenzia l'importanza di preservare una presunta e assurda “purezza” di usi, costumi e tradizioni culturali nei confronti di influenze esterne, può essere interessante analizzare ciò che quotidianamente succede nell'arte e più specificatamente nelle musiche del mondo. In musica non è assolutamente possibile scindere, se non in modo strumentale, due concetti quali “tradizione” e “contaminazione”. Basti pensare alla nascita ed evoluzione di molte musiche oggi considerate tradizionali e fortemente rappresentative dell'identità di singoli paesi o culture. La bossanova, ormai paradigma della musica brasiliana, nasce negli anni '40/'50 del secolo scorso dall'unione del samba (ritmo a sua volta direttamente discendente dagli schiavi africani “importati”) con i ritmi sincopati della musica jazz. In Giamaica il reggae, ora universalmente noto come la musica per antonomasia dell'isola, nasce perché ai ritmi autoctoni del calypso e del mento si uniscono suoni e atmosfere della musica nera americana. Cosa sarebbe del tango argentino senza l'influenza su di esso esercitata, fra le altre, dalla musica degli immigrati italiani? Highlife nigeriano, soukous congolese, rai algerino non esisterebbero, almeno nelle forme che conosciamo, senza l'influenza su di essi esercitata da musiche esterne. Molte delle musiche citate sono state avversate alla loro nascita proprio perché “impure”, mentre oggi sono considerate tradizionali ed espressione di identità culturali “forti”, nonché in grado di influenzare altre musiche in un gioco di relazioni e contaminazioni che non è assolutamente possibile fermare, né tanto meno intelligente criticare. Sembra quindi evidente che più ci si apre all'esterno, più ci si rafforza culturalmente, a dispetto di ciò che le propagande di regime, spesso strumentalmente, ci propinano. Del resto, ritornando alle musiche di cui si scriveva poco sopra, esse non sono nate in ambito in ambiti istituzionali o “ufficiali” (scuole, conservatori ecc...), da cui invece sono state avversate: il rai nasce nei bordelli (così come il jazz nordamericano, altra musica “bastarda” per eccellenza, per lungo tempo snobbata dalla critica musicale colta), il tango nei bar malfamati di Buenos Aires, l'hip hop, che oggi influenza, in modo assolutamente eccitante e cangiante la musica che i giovani ballano in tutto il mondo, nasce in strada. Chi pretende di scindere tradizione e contaminazione o, nel migliore dei casi, ignora l'evoluzione delle culture o ha fini in qualche modo poco rispettabili. Comunque è destinato ad essere ridicolizzato dalla storia, sempre.
Un recente articolo apparso su un giornale sul grande cantante algerino Khaled mi ha fatto tornare alla mente un suo concerto che ho visto, una ventina di anni fa, al porto di Bari. Concerto straordinario, quintessenza del mirabolante appeal sonoro della musica rai algerina, eccitante miscuglio di melodie arabe, pop occidentale, reggae, percussioni africane e tanto altro, all'insegna del divertimento e del coinvolgimento sfrenato del pubblico. E proprio il pubblico, allora, mi colpì particolarmente, con tantissimi giovani di paesi ed etnie differenti, molte coppie miste, un universo giovanile danzante ed emanante una sana e rivoluzionaria energia scagliata contro le convenzioni. Non so se la nascita del rock'n'roll desse ai giovani americani degli anni '50 del secolo scorso le stesse sensazioni, ma non mi pare azzardato scriverne in questo contesto, e non solo perché ricorre in questi giorni l'anniversario della sua nascita (il 19 luglio 1954 uscì il primo singolo di Elvis Presley). Anche il rock'n'roll, come il rai, è stata musica meticcia e bastarda, unione di musiche nere e bianche, rhythm'n'blues, gospel, country, folk, blues e chissà cos'altro ancora. Non uno scippo bianco di musiche nere come troppo spesso si dice, ma una cosa del tutto diversa da cosa c'era prima, se è vero, come un leader delle Black Panthers nordamericane (movimento per la difesa dei diritti del popolo nero) ha affermato, che “...Elvis ha osato fare alla luce del sole quello che gli altri facevano di nascosto al buio: avere rapporti umani con i neri”. Il rai algerino e il rock'n'roll americano hanno avuto, nei rispettivi paesi e ovviamente in tempi diversi, la stessa carica rivoluzionaria, assolutamente non ideologica, ma generazionale, fisica, oserei dire sessuale nel liberare il corpo ancor prima della mente. Hanno arruolato legioni di giovani ma si sono guadagnati l'ostracismo del potere e delle classi sociali dominanti, che in Algeria è arrivato fino all'uso della violenza, come dimostrano l'assassinio del celebre Cheb Hasni da parte dei fondamentalisti e lo stesso Khaled costretto ad emigrare in Francia. Non violento ma più sottile il contrasto al rock'n'roll in America, con il suo simbolo Elvis arruolato nell'esercito con tanto di taglio del suo celebre ciuffo esibito in televisione quasi come simbolo di restaurazione (e infatti al suo ritorno Elvis non fu più lo stesso e anche il rock'n'roll, già a fine del decennio, rientrerà nei ranghi, sfruttato dal mercato e svuotato di ogni carattere ribelle). Resta forte l'impressione comunque che in determinati periodi storici l'arte possa convincere che vivere in un mondo diverso sia possibile...
“The power of love / a force from above / cleaning my soul”. Basterebbe quel magnifico inno al potere salvifico dell’amore che è “The Power of Love” per tenersi stretto questo disco. E’ il 1984, la neonata ZTT Records ha già ha al suo attivo gli esordi di Art Of Noise e Propaganda (e scusate se è poco…), ma alla terza uscita fa il botto, con "Relax" e "Two Tribes" che scalano le classifiche, seguiti poco dopo dal singolo citato. Tre singoli, tre temi forti (sesso/religione, guerra, amore): chi sostiene che gli anni ’80 fossero anni disimpegnati approfondisca meglio la questione...
Increbibile come ancora oggi Sakamoto sia da alcuni considerato un musicista sopravvalutato! Stiamo scrivendo di un artista in grado di precorrere, con la Yellow Magic Orchestra, quella commistione fra elettronica e pop che diventerà successivamente consolidata, di creare musiche da films suggestive e popolari ("L’Ultimo imperatore"), di confezionare dischi di avanguardia al confine fra elettronica e minimalismo. Basterebbe forse il solo disco di cui qui scriviamo, comunque, per garantirgli un rispetto perenne. Grazie a un parterre di artisti incredibile (da Robert Wyatt a Youssou N’Dour, da Arto Lindsay a Marc Johnson, da Brian Wilson a tanti altri ancora…), Sakamoto firma un disco apolide, che è un inno alla bellezza (mai titolo fu più azzeccato...) al di là della fedeltà a un genere consolidato, che qui non è definibile.
Di difficile reperibilità fino alla recente ristampa, questo lavoro non è in genere annoverato fra i capolavori di Don Cherry, ma merita assolutamente di essere conosciuto e (ri)scoperto per capire le sfaccettature di un'artista che, diventato uno dei trombettisti di riferimento del “nuovo” jazz che dagli anni '60 rinnovò la musica afro-americana, si trasformò in un musicista capace di trascendere questo stesso ruolo e di diventare un esponente della musica improvvisata intesa nel senso più ampio. Cominciò a viaggiare in giro per il mondo collaborando con i musicisti più disparati e applicando a musiche e strumenti di altre tradizioni sonore la propria sensibilità jazzistica, sacrificando la "perfezione" per l'ispirazione più pura e la voglia di sperimentare. Questo disco ne è un chiaro esempio, non vi dico altro...
La carriera di Veloso è un monumento a contaminazione e sperimentazione applicate alla musica brasiliana, che ne hanno fatto un assoluto protagonista della cultura carioca degli ultimi 50 anni. Se, in riferimento a ciò, si cita sempre il movimento tropicalista di fine anni '60, di cui fu personaggio di punta (assieme, giova ricordarlo, a Gilberto Gil, Tom Zè, Gal Costa e Maria Bethania fra gli altri), vorremmo porre luce qui su un altro periodo di feconda crescita artistica per il musicista brasiliano, che ebbe come fulcro il disco di cui scriviamo. Uscito dopo un capolavoro come il precedente “Estrangeiro” e prima di due altri dischi bellissimi come “Fina Estampa“ e “Tropicalia 2” (con Gilberto Gil), “Circulado” vede Veloso prodotto da un guru dell'avant rock di sempre come Arto Lindsay, e ciò si riflette in un suono cosmopolita ed urbano applicato a composizioni di assoluto livello. La nostra preferenza va ai contrasti fra la voce flautata e melodica di Caetano e le lievi dissonanze di pezzi come “Fora da ordem”, “Circulado de fulo” e “O cu do mundo” (che da noi avrà fortuna nella traduzione di Fiorella Mannoia), ma trovano spazio nel lavoro anche pezzi bossanova, ballate intimiste e la sperimentazione pura di “Ela ela” (puro Arto Lindsay). Per me, ai tempi, fu una pura epifania!
Nel caso di mogli, mariti o figli di grandi artisti che ne seguano le orme professionali è sempre difficile capire se il legame sentimentale o parentale li abbia più aiutati o penalizzati. Se è indubbio che la moglie di John Coltrane abbia beneficiato del nome del marito soprattutto nell'entratura discografica presso la Impulse, è altrettanto vero che la critica spesso bistratta o ignora i suoi dischi. Ottima pianista e fra i pochi suonatori di arpa degni di menzione in contesto jazz, Alice ci ha invece lasciato ottimi lavori, fra cui quello di cui scriviamo qui, equamente diviso fra pezzi in cui si esibisce al piano e all'arpa. Quello che, al di là dell'ottima tecnica strumentale, risalta e pare essere il maggior lascito dell'arte del marito, è la componente spirituale della sua musica, che può fluire liberamente anche grazie alla solida ed inventiva sezione ritmica, costituita dai grandi Ron Carter al contrabbasso e Rashied Ali alla batteria.
Quando avevo 16 anni Billy Bragg era fra i miei eroi. Politicamente schierato con la sinistra più progressista ed integerrima, nemico di ogni fascismo, promotore di diritti sociali... Soprattutto autore di canzoni tanto semplici quanto ispirate, folk con attitudine rock, dalle chitarre affilate e dalla voce calda, con quell'accento inglese così "working class". Senza contare i testi, al solito equamente divisi fra pubblico e privato, ma sempre intirisi della stessa coinvolgente passione. Questo disco rappresenta tutto ciò che ho cercato di descrivere a parole e, soprattutto, contiene la bellissima "Levi's Stubbs tears".
All'inizio degli anni '90 John "Cougar" Mellencamp è reduce da alcuni dischi che, in un'escalation costante di qualità, l'hanno elevato sull'olimpo dei cantautori rock a stelle e strisce, esponente di un suono americano classico, "tagliente" ma anche legato alle radici. Con la consueta inquietudine artistica che sempre lo contraddistinguerà (in qualche caso ai limiti dell'autolesionismo), Mellencamp indurisce il suono, ingaggia un chitarrista "affilato" come David Grissom e costruisce un disco monolitico ed elettrico più energico delle opere precedenti. Raramente citato fra le sue opere più significative, a nostro parere è invece da considerarsi fra i suoi migliori.
Il tempo ha insegnato a considerare Sun Ra per quel geniaccio irregolare ed anarchico che era, ponendo la sua statura musicale al di sopra di ogni foklore relativo alla sua figura stravagante ancorchè lucidissima. Ancora oggi i suoi dischi restano però sconosciuti ai più, per cui provvediamo a segnalarvi almeno uno fra quelli che ogni amante di jazz, e di musica in generale, dovrebbe conoscere e possedere. Da ottimo direttore ed arrangiatore, Sun Ra guida qui la sua Arkestra lungo le strade di un perfetto jazz orchestrale. E' "Ancient Aiethiopia" il pezzo che basterebbe da solo a consigliare l'acquisto del disco. Lungo un ritmo vagamente sudamericano si stende per nove eccitanti minuti un solo accordo sul quale improvvisano alternandosi i vari musicisti, secondo una struttura che l'evoluzione della musica jazz a venire imparerà a definire "modale". Struttura aperta, assoli minimali e ispirati, equilibrio formale non sempre riscontrabile in composizioni di questo tipo. Un vero capolavoro, che fa il paio almeno con lo swingante e più tradizionale "Enlightenment", che diverrà un classico del gruppo.